Paziente oncologico: gestire la malattia

Sogni anche tu di dare un senso a ciò che ti è successo?

Quando ho ricevuto la prima diagnosi di cancro e sono diventata un paziente oncologico avevo solo 18 anni. Non avevo mai sentito parlare di malattia, figuriamoci di cancro.

Per una crisi respiratoria durante una gita scolastica, mi ritrovai davanti ad un medico oncologo che, senza nessuno scrupolo e senza minimamente pensare a come avrebbero influenzato le sue parole nella mia vita, mi disse: “Lei signorina nel 70% dei casi morirà, nel 30% dei casi si potrà salvare! Ha un cancro ai linfonodi, che richiede delle terapie lunghe e molto pesanti, le cadranno i capelli e non potrà più frequentare luoghi affollati”.

Capite bene quanto quelle parole non solo abbiano steso letteralmente a terra mia mamma, che non era pronta ad accettare che sua figlia diventasse paziente oncologica, ma abbiano anche creato fin da subito in me un film mentale all’altezza dei peggiori Horror che possano esistere: la parola “cancro” è in grado di scatenare in ognuno di noi aspetti psicologici irrazionali ed inconsci, legati alla paura di morire e al pensiero di perdere i propri affetti famigliari.

Mi sono sentita impaurita, arrabbiata, senza speranza per tanto tanto tempo e nonostante la malattia regredì, mi resi conto quale enorme peso avessero avuto quelle parole.

Compresi che le parole sono l’arma più potente che una persona possiede: come una lama a doppio taglio possono guarire o mutilare. Figuriamoci quando a pronunciarle è un medico oncologo che formula diagnosi di cancro come fossero già sentenze di una fine preannunciata.

L’importanza del rapporto fra medico e paziente oncologico

All’epoca non sapevo ancora quanto importante fosse il rapporto fra paziente oncologico e medico e come in realtà guarire fosse anche una questione di parole. Ma mi arrivò chiaro quando iniziai a fare corsi di comunicazione. Fu allora che compresi davvero quanto le parole possano creare un’aspettativa di beneficio o un effetto totalmente nocebo.

“Le parole creano sempre un effetto pragmatico”. Come disse P. Watzlawick.

La parola “diagnosi” nel paziente oncologico si traduce immediatamente in “paura”.

E allo stesso modo termini come “recidiva” creano sempre “angoscia”. E seppur la verità va sempre detta, ci sono sempre modi e parole da usare per renderla più accettabile e comprensibile. Bisognerebbe davvero evitare di creare una sorta di barriera comunicativa che si frappone fra il medico e il paziente oncologico ostacolando la comprensione reciproca e danneggiando la qualità della relazione comunicativa fra medico e paziente oncologico.

Se il medico, ma al tempo stesso altri professionisti della relazione di aiuto, o caregiver e persone che si trovano a fianco di tutti coloro che affrontano la malattia, non conoscono nel profondo le emozioni del paziente oncologico, le dinamiche inconsce e i loro bisogni, insieme alle fasi della malattia e al loro stato di consapevolezza, si rischia davvero di fare dei danni irreversibili al paziente oncologico.

La relazione fra professionista e coloro che si ammalano di cancro raggiunge livelli molto profondi perché molte delle informazioni che si condividono sono personali e intime: stabilire una relazione solida ed efficace con il paziente oncologico è fondamentale per evitare di compromettere la buona riuscita dell’intero percorso di guarigione.

Fabrizio Benedetti, professore di Neurofisiologia, ne parla proprio nel suo libro “Effetti placebo e nocebo”, dove illustra in maniera scientifica, tutto ciò che accade nel cervello del paziente, dalla diagnosi, al durante e dopo le terapie e sostiene ciò che io stessa avevo provato sulla mia pelle: il condizionamento che avviene a livello inconscio delle parole dette.

La comunicazione fra medico e paziente oncologico: come può influenzare la cura ed il percorso di guarigione

Tornando a quel lontano 1993 non avevo nessuno al mio fianco che potesse darmi sostegno e aiutarmi a gestire le mie emozioni e i miei pensieri nella maniera più efficace. Le parole pronunciate da quel professionista, durante e dopo le terapie antitumorali, continuavano a rimbombare nel mio cervello, creando un’altalena di emozioni che oscillavano fra angoscia, frustrazione, sofferenza e l’immensa paura di non farcela, di non essere all’altezza e di non riuscire in questa sfida più grande di me.

Mi sono chiesta migliaia di volte come sarebbe stato se quel medico mi avesse detto per esempio: “Abbiamo il 30% delle possibilità per avere una regressione della malattia. Dovrà fare delle terapie pesanti, ma gli effetti seppur aggressivi, le permetteranno di stare meglio!”

Sentite che effetto diverso creano queste parole?

Ma le situazioni passate sappiamo benissimo che non si possono cambiare. E’ la nostra reazione a ciò che ci accade che fa la differenza e quindi proprio per questo mi sono messa in cammino per scoprire ciò che potevo fare.

Il mio desiderio di riscatto, di vivere e di migliorare la qualità della mia vita, nonostante tutto, è stato sempre più forte ed è stato ciò che mi ha fatto scoprire un mondo parallelo fatto di comunicazione, di abilità mentali ed emotive da acquisire per gestire la malattia in maniera efficace, di dinamiche intrinseche all’essere umano che influenzano l’arrivo della malattia e che vanno assolutamente trasformate per andare verso una guarigione mentale, emotiva, spirituale e quando è possibile, fisica della persona stessa.

Non volevo rimanere una vittima di ciò che mi era capitato e non volevo assolutamente farmi invadere la vita da questo episodio, che seppur traumatico, come lo è per tutti i pazienti oncologici che ricevono una diagnosi di tumore, era arrivato per darmi un segnale importante riguardo la mia vita. Volevo dare un senso a tutto ciò che mi era successo.

Dopo una grande trasformazione dentro e fuori me stessa, investendo tempo, energie e risorse pratiche per tanti anni, in corsi di formazione e di cancer coaching in America, un pomeriggio mentre camminavo nel mio bosco preferito vicino a casa, dove andavo ogni volta che volevo riconnettermi con me stessa e ascoltare la voce del mio cuore, mi sono detta con la mano sul cuore: “se tutto ciò che ho fatto mi ha dato l’opportunità di migliorare la mia vita, allora questa sarà la mia missione nel mondo: dare a tutti coloro che si trovano dall’altra parte della “barriera” quegli strumenti comunicativi relazionali e trasformare le dinamiche inconsce che influenzano anche l’arrivo della patologia stessa e quindi Migliorare la Vita, Oltre la Cura delle persone che incappano nella malattia tumorale”.

E da quel pomeriggio, la direzione della mia vita cambiò definitivamente.

Portai il cancer coaching in Italia, diventando la prima Cancer Coach certificata in Italia e con il mio metodo pratico e concreto iniziai a lavorare con tutte le persone che si sono affidate al mio percorso. I risultati sono stati incredibili e centinaia di vite trasformate e rinate hanno ricominciato a vivere una vita diversa dopo la diagnosi di tumore.

Ma spesso la vita ci ricorda che non siamo dei supereroi e che nonostante tutti i poteri e l’energia che possiamo mettere in campo per aiutare gli altri, siamo e rimaniamo comunque umani. E per questo, non possiamo trascendere dalla responsabilità di prenderci prima cura di noi stessi.

Noi come persone, noi come professionisti e noi come “aiutanti” di coloro che hanno bisogno di noi.

Questa è stata la lezione immensa che mi ha lasciato il mio secondo cancro e che mi ha dato comunque la forza di continuare a portare avanti il mio progetto, nonostante ogni giorno ed ogni notte mi svegliassi e mi addormentassi con il pensiero: ma riuscirò? Capiranno le persone l’importanza e il valore di questo percorso da intraprendere?

Le difficoltà sono state immense, gli ostacoli erano sempre lì che facevano capolino e ho avuto anche diverse battute di arresto, dove davvero mi sono chiesta se ne valesse la pena, ma poi mi bastava il messaggio di una donna che seguivo nel percorso, per riportarmi subito alla voce del cuore, che ogni volta mi sussurrava: “Vai avanti, perché questo vale la gioia di tante vite rinate”.

E quindi dopo aver lavorato per anni facendo percorsi individuali e di gruppo con le donne malate di cancro, dopo aver aiutato oltre 500 donne ed avergli trasmesso tutti gli strumenti pratici per riprendere la loro vita nelle mani, ho scoperto e avuto la conferma tangibile, di quanto erano le parole a distruggere le vite del paziente oncologico.

A volte sono le parole dette durante il nostro imprinting, altre volte le parole dette da professionisti a cui si dà un’autorevolezza inconscia, altre le parole che noi stessi ci ripetiamo e a cui spesso crediamo.

La mia missione oggi: il Master in Coaching Oncologico

Quindi la Missione oggi non è solo aiutare le persone che affrontano la malattia, ma dare a tutti i professionisti della relazione di aiuto, quella comunicazione efficace e pragmatica che crea una reazione placebo nel paziente oncologico, in modo da dargli potere personale, fiducia e speranza.

Il Master in Coaching Oncologico è un percorso trasformativo e formativo al tempo stesso per tutti quei professionisti della relazione di aiuto, che hanno a che fare con il paziente oncologico e vogliono migliorare la loro comunicazione per sentirsi sicuri, capaci ed efficaci di gestire il paziente dalla A alla Z, migliorando così la loro Vita, Oltre la Cura.

Ad oggi già decine di professionisti a largo spettro hanno scelto di intraprendere questo percorso: sul sito e nel canale Youtube dedicato potete trovare le loro testimonianze, sentire le loro parole mentre raccontano come hanno trasformato il loro approccio con le persone affette da tumore, il loro modo di lavorare e di sentirsi di fronte e insieme al paziente oncologico, creando così persone felici e soddisfatte.

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