Come è cambiata oggi la relazione fra medico e paziente oncologico: da paternalistica ed autoritaria a partecipativa ed empatica

Nel precedente articolo “Il medico: cerniera tra i bisogni dei pazienti oncologici e la competenza professionale”, ho approfondito l’importanza di un approccio empatico e partecipativo del medico per migliorare la relazione con il paziente oncologico. In questo articolo analizzeremo le dinamiche che caratterizzano questo legame, fornendo al medico oncologo le chiavi per valorizzare le proprie competenze personali e comprendere i bisogni del paziente.

La relazione medico-paziente è da sempre uno degli elementi cardine su cui si basa il rapporto medico-paziente.

Una buona diagnosi e una buona cura dipendono in modo imprescindibile da una relazione efficace tra questi due attori. In un articolo precedente dal titolo “Il medico “vecchio” stampo e’ morto. Oggi e tanto più domani servirà un medico 3.0”, ho spiegato cosa significa per un medico oncologo approcciarsi ad un paziente oncologico, andando a definire le coordinate di una relazione fondata sulla giusta compresenza di competenza e autorevolezza e un atteggiamento solidale.

Questa relazione ha subito nel tempo modifiche sostanziali nella sua rappresentazione quotidiana negli ambulatori medici.

Per molti anni, troppi direbbe ora qualcuno, la relazione del medico con il proprio malato è stata improntata al paternalismo più sfrontato. Il medico era concepito come il detentore della “scienza” e quindi implicitamente del “potere” e della capacità insindacabile di giudicare per l’altro, di prendere decisioni in sua vece, di sapere sempre cosa è più utile per lui, decidendo di volta in volta cosa fare, come farlo e quando farlo. Dall’altra c’era il paziente che “si affidava” e che pertanto, con questo atto preliminare di sudditanza, subiva in modo incondizionato le decisioni altrui, anche quando queste erano magari in palese contrasto con quello che pensava o che voleva fare.

Fino ad ora nella relazione medico-paziente, e ancor più nella relazione medico-paziente malato, era sempre stata implicita la tendenza ad affidarsi totalmente di quest’ultimo al proprio medico di fiducia. Al medico, in virtù del suo ruolo, si riconoscevano incondizionatamente competenze tecniche specifiche e proprio a queste il paziente si affidava per richiedere la soluzione dei sintomi e delle malattie da cui è affetto.

Oggi questo tipo di relazione di dipendenza totalizzante del paziente nei confronti del medico viene messo pesantemente a dura prova.

L’abbiamo già detto nel precedente articolo: la massiccia diffusione di informazioni e nozioni, messe a disposizione del paziente dai mezzi di comunicazione moderni, ha instillato in maniera radicata nella persona la presunta certezza di sapere “tante cose”, addirittura da porsi, in alcuni casi, sullo stesso piano del medico.

La conseguenza di questa assunzione di autonomia da parte del paziente si traduce, nella maggior parte dei casi, in un atteggiamento di scarsa fiducia nei confronti del medico al quale ci si affida: la persona si sente condizionata dalla paura che il suo medico non lo stia seguendo nella maniera giusta o non gli somministri la giusta terapia.

Come può dunque il medico contrastare la diffidenza del paziente, rassicurandolo e creando in lui la consapevolezza che ogni scelta è fatta per salvaguardare e proteggere la salute della persona?

La risposta è instaurando con il paziente un dialogo corretto, fondato in primo luogo su una comunicazione il più possibile chiara, diretta e trasparente.

È essenziale che l’informazione venga garantita in tutte le tappe del percorso medico, dalla fase diagnostica a quella di terapia, perché questo mette il paziente in una condizione di partecipazione e coinvolgimento attivo, con effetti incredibilmente positivi sulla terapia.

Ma come si forniscono informazioni tanto complesse al paziente? Per poter decidere con coscienza di causa ed essere consapevole del proprio percorso di cura, le informazioni debbono essere fornite con semplicità e in termini comprensibili. Il paziente deve essere informato di tutti i vantaggi dell’una e dell’altra terapia, delle possibilità di riuscita così come di quelle di insuccesso, dei rischi derivanti da un percorso e dell’efficacia o meno delle scelte alternative.

Per favorire la comprensione delle informazioni, è assolutamente fondamentale che il medico metta a proprio agio il paziente, ponendogli le giuste domande e permettendogli di aprirsi totalmente con lui. Solo in questo modo l’indagine condotta dal medico e la conseguente somministrazione della terapia, potrà rivelarsi davvero efficace.

Ma per poter comprendere totalmente il quadro clinico del paziente c’è una componente impossibile da trascurare: sto parlando di quella emotiva e psicologica, naturalmente. Si tratta di una dimensione che, soprattutto quando si tratta di pazienti oncologici, influisce direttamente sul benessere della persona e sul suo disporsi in maniera proattiva nei confronti della terapia. Il paziente oncologico è prima di tutto una persona che soffre e che ha visto le proprie relazioni famigliari, sociali e lavorative completamente sconvolte dalla malattia. Quando ci si rapporta ad un paziente la cui esistenza è stata distrutta dalla malattia è importante considerare la PERSONA, ancora prima della patologia stessa.

Il medico oncologo viene così ad assumere il ruolo di medico della persona e non più esclusivamente della malattia.

Conosce il paziente, la sua storia, conosce la malattia e la sua evoluzione, ma soprattutto conosce il contesto famigliare e sociale in cui la malattia si è sviluppata e si sta sviluppando. È questo un punto di vista non solo privilegiato, ma a tutto campo, in grado di vedere non solo i singoli aspetti della triade malato-famiglia-ambiente, ma capace di cogliere anche la visione d’insieme e prospettica del paziente calato nella sua realtà quotidiana di vita e di relazioni.

In questo rapporto con il malato, il medico ha sviluppato una confidenzialità e una “complicità” che fa sì che la relazione si sostanzi spesso in modo naturale in un rapporto tra pari. Ecco che allora la soggezione e il disagio che spesso si rilevavano nel rapporto tradizionale tra medico specialista e paziente mancano nella relazione con questo nuovo modello di medico, che ha completamente svincolato il confronto con la persona malata da qualsiasi sudditanza nei propri confronti, tanto da fargli deporre qualsiasi paura, dubbio o insicurezza latente o manifesta.

Da questo punto di vista la relazione fra medico e paziente assume ancora e ancor di più un significato fondamentale ed insostituibile. Saper essere insieme al malato ed esserci per affrontare uniti il percorso difficile della cronicità o quello ancora più difficile della terminalità o della morte sono esperienze forti ed un banco di prova della relazione tra medico e malato e ambiente famigliare.

Il medico, dunque, sa di dover esserci, ma questo è un compito delicato che, per essere svolto, necessita di competenze e conoscenze di coaching oncologico che vanno ben al di là delle nozioni tecniche che il professionista possiede per formazione ed esperienza personale. Solo in possesso di questo bagaglio tecnico ed esperienziale il medico saprà realmente partecipativo il rapporto con il paziente.

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